Chioggia.

Chioggia.
Canal Vena, ponte Zitelle.

martedì 28 dicembre 2010

Buon Natale



"Lo avvolse in fasce
e lo depose in una mangiatoia
perchè non c'era posto per loro
nell'albergo" (Luca, II, 7)












Nonna Lena
Non avevamo ancora il televisore e la conclusione della giornata era molto diversa da come oggi siamo abituati.
Scendevamo tutti dalla nonna. La sua cucina dopo cena – e allora si cenava presto, verso le sei di sera – si riempiva di nipoti. Oltre ai miei due fratelli arrivavano dai piani superiori anche i miei cuginetti Rosa e Sergio, e, spesso, qualche vicino.
Nonna Lena sembrava sempre sorpresa di vederci e ci accoglieva con un cerimoniale molto affettuoso assegnandoci, ogni sera, un posto diverso vicino al camino. Ormai la casa si riscaldava con una grossa stufa a legna, detta cucina economica, ma lei continuava ad assegnare il centro della vita domestica al camino che in questi tempi trasformava in uno scenario suggestivo di presepe. Era una vera artista; riusciva sempre a stupirci. Dapprima teneva il tutto nascosto dalla tendina, solitamente legata ai lati con grazia e, inaspettatamente, verso l’Immacolata, chiusa. Ma il sipario dopo qualche giorno si apriva e un paesaggio ogni anno diverso si presentava ai nostri occhi. Non tralasciava il minimo particolare, il cielo notturno e stellato, pieno di astri brillanti e luminosi, la cometa dominante sullo sfondo, gli alberi di un bosco all’orizzonte, le case del villaggio alla destra, la stradina sassosa e bianca, di vera ghiaia, che si srotolava a biscia come le strade di montagna, il pozzo all’angolo, lo stagno che brillava di acqua ghiacciata (in verità un frammento di specchio rotto) e in posizione centrale, la capanna, la sua specialità. Ogni anno la casupola era diversa, elaborata, ricercata, con colonne cadenti, travi sporgenti, coperta di un tetto precario ed incerto, riempita di fieno e paglia. E poi il muschio: soffice, verde, verde oliva, verde scuro, quasi marron… verde muschio!
A noi toccava scegliere da uno scatolone i personaggi, ragionarne il ruolo, descrivere la funzione, discutere sul compito e collocarli al posto giusto. Lei, sapiente e abile regista, dosava questa operazione con parsimonia e in parti eguali, cercando di impegnarci, quasi a sgranare un calendario dell’Avvento, fino alla vigilia quando ci rimaneva da posare solo il Bambinello.
Mentre lavoravamo attivi, tesi e pieni di fervore, trovava ogni sera una qualcosa da raccontarci. Il primo racconto era sempre il ricordo del ceppo, che ardeva fin quando nonno Gidio lavorava in squero, proprio ove ora costruivamo il presepe. Poi ricordava di quando era piccola e il presepe si riduceva alla Sacra Famiglia ritagliata su sagome di carta e appesa alle pareti delle scale, come ora si fa nelle scuole, o di quando fu applaudita da tutte le sue compagne di calle perché aveva avuto l’idea di ritagliare delle stelle comete di carta colorata e incollarle alla finestre della cucina illuminando il tutto con due mozziconi di candela. Effettivamente è stata una bella suggestione anche perché la calle era priva di illuminazione pubblica e l’effetto fu efficace.
Ma non ci lasciava andare a casa senza offrirci un quadrettino del dolce natalizio della nostra gente: la smegiassa. Era il suo piatto forte natalizio e con orgoglio diceva che il nostro dolce era molto più ricco del panettone. Infatti ci ricordava la ricetta: oltre l’uvetta e le bucce d’arancia candite noi avevamo: i pinoli, le mele, la zucca e la melassa, che si aggiungevano alla farina ed al burro. Con orgoglio diceva che era un piatto nobile e ricco che si poteva permettere solo a Natale e che se ci fosse stata una gara di dolci natalizi lei avrebbe voluto parteciparvi sfidando la pinza di Venezia, la cubaita ligure, la gubana friulana, il pandoro di Verona, il panforte di Siena, il panpepato di Ferrara e di Urbino, lo strudel degli austriaci e ovviamente il panettone che, ci ricordava con precisione non era di Motta o Alemagna (le sole due marche note a quel tempo) ma il dolce tipico di Milano. E qui sfoderava una cultura antica e precisa rammentandoci che si trattava in fin dei conti di un pane augurale, diverso dal comune, che si confezionava per sottolineare la solennità e l’importanza della festa natalizia. Si cercava di rendere prezioso l’alimento aggiungendo spezie e ingredienti che simboleggiavano la prosperità e i doni dei magi. Ci ricordava che sin dall’antichità in questo periodo ogni famiglia preparava tre pani grandi, diversi da quelli che si mangiavano durante il resto dell’anno, che ogni Pater familias (capofamiglia) tagliava e distribuiva ai presenti nel corso della celebrazione del “rito del ciocco” durante la veglia (vigilia dal latino) di Natale.
Proprio la vigilia voleva i nipoti a tavola e ci offriva un assaggio di anguilla in umido con polenta gialla di mais. Diceva che senza quell’assaggio non potevamo gustare il vero Natale… Ora che sono grande so che aveva ragione perché sin dall’inizio i cristiani usavano il pesce per distinguersi e proprio il pesce sin dalla notte dei tempi è sempre stato l’alimento presente nei momenti di preparazione e attesa come appunto l’ultima sera della novena natalizia.
Ora la nonna non c’è più, ma ogni Natale ritorna nel cuore di noi nipoti che cerchiamo di ripetere il suo lavoro, ci attardiamo con i bambini e con gioia raccontiamo queste cose. All’inizio ci guardano con occhi stupiti e lontani ma sempre colgono maggior profondità nelle semplici azioni che da secoli si ripetono.
LUIGI DE PERINI