Chioggia.
domenica 31 maggio 2009
Pablo Neruda
Non t'amo come se fossi rosa di sale,
topazio o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t'amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, entro l'ombra e l'anima.
T'amo come la pianta che non fiorisce e reca dentro di sè,
nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.
T'amo senza sapere come, nè quando nè da dove,
t'amo direttamente senza problemi nè orgoglio:
così ti amo perchè non so amare altrimenti che così,
in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.
domenica 24 maggio 2009
Ha detto...
“Possiamo imparare dai nostri errori a meno che non ci leghiamo ad una
ideologia e quindi, ci persuadiamo che sappiamo e che, poiché sappiamo, non
dobbiamo imparare più niente.
Questo naturalmente è il più dannoso di tutti gli errori possibili”
Karl Raimund Popper Objective Knowledge: An Evolutionary Approach, 1972
Bressanone
A margine del nuovo romanzo di José Saramago, Il viaggio dell'elefante, Torino, Einaudi, 2009.
Ritaglio e cito:
Bressanonedi Karl Mittermaier.
Tra vicoli e strade
Il nostro viaggiatore, che intende scrivere un servizio giornalistico su Bressanone in una affermata rivista del suo Paese, il giorno dopo - è il quarto della sua permanenza in città - si dirige attraverso la via Fienili in direzione di un antico hotel che reca come insegna un elefante e sulla facciata esterna presenta la raffigurazione di un massiccio pachiderma.
Si stupisce non poco e si chiede: Che c'entra Bressanone con un elefante? Come mai proprio il dipinto di un animele profano che non ha nulla in comune con vescovi e preti, con incenso e chiese monumentali? Un tempo, nel 16° secolo, la presentazione di particolari rarità, quali giganti, nani, animali esotici - pappagalli e tigri, leoni pantere ed elefanti - costituiva un evento straordinario che rimaneva scolpito nella memoria per una vita intera. Correva l'anno 1551/52 quando a Bressanone giunse un elefante indiano che suscitò stupore ed entusiasmo tra la popolazione della città e dei dintorni. La gente presa da grande curiosità venne anche da lontano, affondando i piedi nella neve alta e sopportando freddo e privazioni, pur di vedere da vicino l'elefante, anche per pochi minuti soltanto.
Nel 1548 l'arciduca Massimiliano d'Austria, il futuro imperatore Massimiliano II, si era sposato con la propria cugina spagnola di nome Maria, figlia di Carlo V. Era uno di quei molti matrimoni d'interesse che sapeva ben poco d'amore e molto di calcoli politico-dinastici: gli Asburgo governavano a Vienna ma anche a Madrid. Una parentela austro-spagnola doveva arricchire e consolidare con ulteriore anello il già vasto predominio della Casa d'Austria.
Come dono nunziale Massimiliano desiderava tanto un elefante indiano; e il reggente portoghese soddisfece con sollecitudine questo stravagante sogno infantile. Nella lettera d'accompagnamento ritenne opportuno dare un nome al pachiderma, e precisamente quello del nemico mortale dell'occidente cristiano, ossia quello del sultano Solimano, affinchè questi ne risultasse umiliato come s'addice ad uno schiavo.
In piena estate dell'anno 1551 un fastoso corteo nunziale prese le mosse da Madrid per recarsi a Vienna. Accanto a Massimiliano, alla novella sposa Maria, a molti soldati ed inservienti, nel porto di Genova si aggiunse il pachiderma Solimano con due lancieri, dodici uomini incaricati di accudire l'animale e un garzone addetto alla sua guida. Ovunque Massimiliano faceva tappa Solimano suscitava enorme interesse. A Trento, per esempio, uno scultore era lì ad attendere il momento opportuno per esternare l'elefante in una monumentale statua di legno. Siccome nella città del Concilio Massimiliano aveva da risolvere alcune questioni politiche, fece proseguire la propria sposa con l'intero corteo fino a Bressanone, dove giunse nel mese di dicembre e prese alloggio in una taverna sita nei campi a nord della città, dove rimase due settimane; tanto occorreva per ritemprarsi dagli strapazzi del lungo viaggio. Sin dal primo giorno l'elefante Solimano si trovò al centro dell'attenzione di curiosi dagli occhi stralunati. La calca fu tanta e tale che per quanti non ebbero la possibilità di ammirare Solimano in carne ed ossa, sulla facciata esterna della casa si raffigurò il pachiderma a grandezza naturale. L'affresco che lo ritrae è del pittore Leonhard Mair, testimone oculare di questa straordinaria presenza in città.
Da allora la casa che ospitò il corteo nunziale e Solimano reca il nome di Hotel Elefante. E tuttora - anche all'interno dell'albergo - sono conservati molti ricordi di quella visita eccezionale. Al povero elefante giunto dall'India, nonostante la grande agitazione che le circondava e le cure che gli dedicava una piccola compagnia di accompagnatori, le cose non andarono troppo bene. Durante il viaggio tutta l'attenzione della gente era soltanto per lui. E così fu per un certo tempo una volta arrivato a Vienna. Poi l'assuefazione a quella vista quotidiana diradò la presenza dei curiosi, e ancor prima del Natale 1553 il robusto pachiderma si spense miseramente nella sua stalla dilaniato dai morsi della fame. Ciò che rimane dell'elefante di corte è un meraviglioso sgabello a tre piedi che l'allora borgomastro di Vienna si fece confezionare con l'omero e parti della gamba destra anteriore. Poi l'oggetto in questione sparì da Vienna. Si sa che nel 1869 il monastero di Krems (Austria inferiore) lo acquistò presso un antiquario in odore di fallimento e lo sistemò in un'esposizione permanente di cose rare anche se di dubbio valore artistico. Grazie però alle sue nobili origini gli si può attribuire un qualche significato storico-culturale. Una curiosità comunque che fa sgranare tanto d'occhi: la superficie ossea dei piedi è onata di originali e delicate incisioni raffiguranti gli stemmi di Massimilano e della consorte Maria, nonché la sagoma massiccia del celebre elefante. Il ripiano del sedile reca incisa, fra decorazioni ornamentali, una pomposa scritta latina che narra la storia del misterioso oggetto, precisando che l'animale morto pesava 142 libbre, di cui 73 si riferiscono allo scheletro.
All'Elefante di Bressanone - suppone giustamente il nostro turista - deve aver preso alloggio anche il pensatore e poeta tedesco Heinrich Heine durante il suo viaggio da Monaco a Genova. In quei giorni però il creatore dell'indimenticabile "Libro dei canti" non era in buona luna. Nemmeno a Bressanone. Il cattivo tempo gli aveva tolto il buon umore, inoltre non riusciva a simpatizzare con la posizione sempliciotta e reazionaria dei tirolesi sullo sfondo delle conquiste fatte grazie alla rivoluzione francese. A Bressanone s'accorge soltanto del fatto che la gente si affretta ad andare in chiesa e che l'aria della città è impregnata di miasmi religiosi; e annota "Ovunque una puzza asfissiante di immagini sacre e di fieno secco". Heine sostò a Bressanone in piena estate nel periodo della fienagione e poco dopo. L'aroma straordinariamente forte del fieno lo percepisce come puzza. E' palese l'associazione che il poeta si sia diretto verso il centro cittadino percorrendo la via dei Fienili che dall'Elefante conduceva attraverso il quartiere in cui fino a pochi decenni fa il piano superiore dei caseggiati rurali era adibito a fienile.
Proseguendo nella sua passeggiata sulle possibili orme di Heine il nostro turista giunge in via Bastioni Maggiori, che nel secolo scorso fungeva da piazza del mercato. Nel 13° secolo i mercati erano stati trasferiti da via Mercato Vecchio nella Piazza del Duomo, dove rimasero fino al 1820. Poi ritrovarono posto in via Mercato Vecchio e vi rimasero fino al 1867, quando appunto si spostarono in via Bastioni Maggiori. In origine le vie Bastioni Maggiori e Minori formavano un fossato colmo d'acqua all'esterno delle mura urbane. Ma già nel 16° secolo il fossato venne colmato con materiale di riporto, lasciando scoperto soltanto un breve tratto di roggia.
La via Mercato Vecchio, se si prescinde da quelle dei Portici, è la vera e propria strada dell'economia brissinese: da secoli essa ospita negozi, botteghe di artigiani ed esercizi pubblici. E, come già detto, qui fu ufficialmente concesso di dare vita al primo consistente esercizio commerciale; volutamente al di fuori delle mura urbane e un po' ai margini delle attività religiose.
Ulrich Fuchs scende lungo la breve via Torre Bianca, valica Porta San Michele, si ritrova in Piazza Parrocchia, gironzola per via Portici Maggiori fino a Porta Sabiona ed eccolo di nuovo in via Bastioni Maggiori. Il nome di questa porta deriva dai Signori di Sabiona che dal 12° secolo avevano il compito di difendere quest'angolo nordoccidentale delle mura urbane. Agli inizi del 17° secolo l'antico castello cittadino entrò in possesso della famiglia Lachmuller da cui pochi anni fa l'acquistò la Comunità di valle che lo restaurò egregiamente. Un tratto di questo grande edificio risale alla più antica struttura urbana fatta erigere dal vescovo Heriward poco dopo il Mille. Come già segnalato, l'occasione fu il trasferimento della sede vescovile da Sabiona a Bressanone, la cui data esatta è tuttora oggetto di discussione. Lo storico della chiesa Josef Gelmi scrive in merito: "Qualunque possa essere stata la nascita di Bressanone, una cosa è certa: lo sviluppo della località iniziò nel 901, quando il re Ludovico il Fanciullo donò al vescovo Zaccaria di Sabiona il maso Prihsna. Benchè nel documento di donazione tuttora conservato non siano indicati i confini precisi della tenuta agricola, si può supporre che si sia trattato di un territorio molto vasto che abbracciava l'intera conca valliva di Bressanone. I vescovi di Sabiona si accorsero ben presto che la piana di Bressanone era preferibile alla roccaforte pressochè inaccessibile di Sabiona. Per questo vi fecero erigere il complesso ambito del Duomo e nel corso della seconda metà del 10° secolo trasferirono la loro sede a Bressanone".
Come si deduce dal catalogo dei vescovi, Heriward fece costruire una cerchia muraria che il suo successore Hartwig - l'immediato predecessore del già menzionato Poppone, alias Damaso II - provvide a completare.
Dei vescovi brissinesi ci sarebbe molto da raccontare: grandi imprese e virtù eminenti, erudizione raffinata e gioiose amenità; ma anche interferenze meno lodevoli nella vita cittadina e qualità abbastanza discutibili. Vogliamo soffermarci brevemente su due di loro: Altwin (1049-1097), l'immediato successore di Poppone, è annoverato fra quei pastori della chiesa locale che misero in cattiva luce la propria missione e dignità. Anche il periodo in cui Altwin visse è caratterizzato dalle violente lotte per le investiture. Pure lui, come Poppone, era un fedele alleato dell'autorità temporale, dell'imperatore Enrico IV che lo ricompensò con laute prebende. Altwin, come riferisce il vecchio catalogo brissinese, avrebbe comperato la dignità episcopale per 100 marchi. Un gesto del genere, sullo sfondo di grande corruzione e di enormi interessi particolari, oggi appare particolarmente riprovevole; nell'alto medioevo, soprattutto nel corso della aggrovigliata lotta per le investiture, la simonia faceva parte di una prassi consolidata quando c'era di mezzo il conferimento di piccoli e grandi incarichi. Fu Enrico IV, che nel 1080 era stato scomunicato per la seconda volta, a convocare in Bressanone un sinodo contro il papa Gregorio VII. La scelta della località sottolinea nuovamente da un lato l'importanza di Bressanone dall'altro la sua felice posizione geografica lungo la strada degli imperatori. Il conciliabolo durò due giorni: il 25 e il 26 giugno 1080. Si ha l'impressione che l'imperatore e i suoi fedeli sudditi avessero fretta; diedero al sinodo il nome di "Concilio Generale"; emanarono un decreto nel quale si accusava il papa di omicidio e di eresia e si esigeva senza mezzi termini la sua deposizione. La conclusione del documento recita: "Per questo, ispirati da Dio, ci siamo radunati nella ferma fiducia negli inviati e nelle lettere dei 19 vescovi, che nel giorno santo della Pentecoste scorsa erano convenuti a Magonza contro Ildebrando (Gregorio VII), che predica sacrilegio e incendio, difende spergiuro e omicidio, mette in dubbio la fede cattolica ed apostolica nel corpo e nel sangue del Signore… Noi quindi emettiamo la sentenza che sia deposto secondo le disposizioni del diritto canonico, venga cacciato e, se non scende dal suo trono dopo questa denuncia, sia dannato in eterno".
A Bressanone poi subito si elesse papa l'arcivescovo Viberto di Ravenna.
Negli anni successivi - la politica imperiale non riuscì ad imporsi definitivamente nei confronti del predominio della chiesa - il vescovo Altwin dovette pagare il fio della propria fedeltà all'imperatore: il duca bavarese Guelfo, ostile ad Enrico IV, lo fece imprigionare nella cappella di San Giovanni e più tardi lo cacciò dalla città. Morì scismatico. Come annota il Gelmi, sotto il vescovo Altwin la diocesi di Bressanone subì dei danni dal punto di vista religioso, ma da quello temporale si arricchì di molto grazie alla sua fedeltà all'imperatore.
Il secondo vescovo che vogliamo brevemente ricordare è il beato Artmanno (1140-1164), uno dei maggiori vescovi che la diocesi possa annoverare. Assieme al duca Reginberto di Sabiona nell'anno 1142 Artmanno fondò l'abbazia dei monaci agostiniani a Novacella, un monastero di grande prestigio storico religioso e culturale, sito alla periferia settentrionale di Bressanone; ogni persona interessata a questa terra dovrebbe dedicargli una attenta visita.
Anche Artmanno, coma altri molti suoi predecessori, intratteneva stretti ed amichevoli rapporti con i detentori del potere temporale, ma per quanto concerne la sua missione spirituale era un uomo di chiesa, un autentico rappresentante del cristianesimo, un vescovo esemplare che per tutta la sua vita non dimenticò mai di essere un uomo di Dio impegnato per la salvezza delle anime.
sabato 23 maggio 2009
Les Demoiselles d'Avignon
giovedì 21 maggio 2009
martedì 12 maggio 2009
Letture
Giddens Anthony, Runaway World. How Globalisation is Reshaping our Lives, Profile Books, 1999 (trad. it. di R. Falcioni, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino, Bologna 2000).
Anthony Giddens è direttore della London School of Economics ed è uno dei più influenti sociologi del nostro tempo.
In questo libro breve ed essenziale, l'editore il Mulino ha raccolto cinque conferenze nelle quali Anthony Giddens si propone di descrivere e ordinare la sensazione che il titolo Runaway World vuole evocare, quella di vivere in un mondo che cambia e sfugge al nostro controllo. Come cambia il mondo che cambia? Il sociologo inglese, attraverso la discussione dei cinque temi proposti (globalizzazione, rischio, tradizione, famiglia, democrazia), indica a colui che definisce 'cittadino cosmopolita' (occidentale) alcuni temi e linee di riflessione.
Il tratto essenziale della globalizzazione, un complesso insieme di processi che opera in maniera contraddittoria e conflittuale, consiste principalmente nel fatto che essa influenzi così gli avvenimenti su scala mondiale come la vita quotidiana; si tratta di un ordine che cresce con modalità anarchiche e accidentali, di un fenomeno politico, culturale e tecnologico, oltre che economico, che si è diffuso soprattutto attraverso lo sviluppo della comunicazione elettronica, la cui esistenza “non è solo un modo per trasmettere più velocemente notizie o informazioni [… ma] altera la struttura stessa delle nostre vite, ricchi e poveri insieme” (pag. 24). Questi processi trasformano e cambiano nazione, famiglia, lavoro, tradizione e natura che divengono “istituzioni-guscio”, che non aderiscono alla società globale cosmopolita: l'impotenza che proviamo, dunque, non è il segno di fallimento individuale ma riflette l'inadeguatezza delle nostre istituzioni.
Centrale per comprendere l'era in cui viviamo, secondo Giddens, è il concetto di rischio, che corrisponde a “scelte azzardate che sono attivamente perseguite in vista di possibilità future” (pag. 37). Se infatti la nostra epoca non è più rischiosa o più pericolosa di quelle precedenti, viviamo in un mondo in cui i rischi creati da noi stessi sono tanto minacciosi quanto quelli che provengono dal mondo esterno, basti pensare alla minaccia del disastro ecologico o al declino dell'istituzione matrimoniale. Il “rischio costruito” (manufactured risk) caratterizza la nostra società; in essa sono pochi gli aspetti del mondo fisico che non sono stati toccati dall'intervento manipolatorio dell'uomo. Gran parte di ciò che consideravamo naturale non lo è più. Come mostra l'esempio del matrimonio, in passato assimilabile a uno stato naturale, oggi chi si sposa pensa in termini di rischio allo stesso modo di chi, più in generale, compie azioni ed è portato ad assumere decisioni e non può più accettare semplicemente le scoperte degli scienziati, essendo in grado come chiunque altro di riconoscere il carattere mutevole della scienza.
Il nocciolo della società cosmopolita globale che sta emergendo, prosegue l'autore, sta nel fatto che le istituzioni pubbliche e la vita quotidiana si stanno in pari modo liberando dalla tradizione. Se in passato ci fu una simbiosi tra modernità e tradizione (laddove famiglia, sessualità e divisioni fra i sessi rimasero pesantemente sotto il controllo della tradizione e del costume), per effetto della globalizzazione e della diffusione della modernizzazione la tradizione si mescola con la scienza in maniera interessante e strana.
Il fatto di essere costretti a prendere decisioni provoca l'estendersi dell'idea e della realtà della dipendenza, che oggi può essere scatenata da ogni settore di attività, perché oggi ogni attività è meno strutturata dai costumi e dalle tradizioni di quanto non fosse un tempo. Anche il fondamentalismo, che consiste nel rifiuto del dialogo in un mondo la cui pace e sopravvivenza dipendono proprio da questo, pone seri interrogativi: possiamo vivere in un mondo in cui nulla è più sacro? La risposta negativa di Giddens lo porta a sostenere la necessità della diffusione di una morale cosmopolita mossa dalla passione.
Il dibattito sulla famiglia, continua l'autore nella quarta conferenza, potrebbe sembrare distante dalla questione della globalizzazione, eppure i rapporti familiari stanno cambiando dappertutto, e ovunque troviamo tendenze parallele. Perciò, afferma Giddens, quella che riguarda le relazioni è una rivoluzione globale. Gli elementi di fondo della vita sessuale in Occidente sono cambiati in maniera essenziale: la sessualità, non più associata alla riproduzione, è diventata qualcosa da scoprire e modulare, e la coppia ha assunto importanza centrale. Matrimonio e famiglia sono diventate “istituzioni-guscio”. Il matrimonio, uno stato naturale che stava a significare l'assunzione di un impegno, oggi non è più l'elemento caratterizzante della coppia, che invece è unita da un legame di intimità alla base del quale è necessaria quella che il sociologo definisce una relazione pura, “un processo di fiducia attiva che induce un soggetto ad aprirsi all'altro” (pag. 78). Questo nuovo tipo di relazione è implicitamente democratica: essa infatti è un rapporto fra uguali basato sulla comunicazione, sulla discussione e sul dialogo e non sul potere arbitrario, la coercizione o la violenza. Se dunque la parità e l'istruzione delle donne sono le più importanti forze che promuovono la democrazia e lo sviluppo economico nel terzo mondo, il persistere della famiglia tradizionale o di certi suoi aspetti in molte parti del pianeta è più preoccupante del suo declino.
Infine Giddens concentra la sua attenzione sulla democrazia “forse l'idea più potente e stimolante del Novecento” (pag. 86), un sistema che implica la libera competizione fra partiti politici per le posizioni di potere profondamente influenzato, in epoca recente, dall'avanzata della comunicazione globale. La democrazia, in quest'epoca del mondo che cambia, subisce un destino paradossale: se da una parte infatti essa si estende in tutto il mondo, dall'altra emerge proprio al suo interno una delusione crescente nei confronti dei sistemi democratici. La rivoluzione nelle comunicazioni ha prodotto una cittadinanza più attiva e più riflessiva di quella di un tempo che rende, lo abbiamo visto, le istituzioni tradizionali incapaci di rispecchiare la realtà e rispondere alla complessità delle relazioni. Nei paesi democratici dunque, sostiene Giddens, c'è bisogno di una democrazia democratizzante, di un approfondimento della democrazia. La “democratizzazione della democrazia” assumerà forme diverse nei vari paesi a seconda delle loro caratteristiche, in modo particolare il decentramento del potere, l'adozione di misure anti-corruzione e il rafforzamento della cultura civica: “non dobbiamo pensare che esistano soltanto due settori della società, lo stato e il mercato, cioè il pubblico e il privato: in mezzo sta la società civile, con la famiglia e altre istituzioni. […] La società civile è l'arena dove gli atteggiamenti democratici, come la tolleranza, devono essere sviluppati” (pag. 94/95). Il nostro mondo mutevole non necessita di meno governo ma di più governo, e questo può essere garantito solo dalle istituzioni democratiche.
Nell'analisi di Giddens, che privilegia gli aspetti politico-culturali della globalizzazione a scapito di quelli economici, la sfera civica sembra essere il luogo in cui si liberano le potenzialità democratiche dei cittadini cosmopoliti. Resta tuttavia da chiarire come l'estensione e la diffusione di quelle che Giddens definisce 'istituzioni-guscio', siano in grado di democratizzare la democrazia, dopo aver assunto, come fa l'autore stesso, che queste istituzioni producono intrinsecamente ineguaglianze. L'esempio della famiglia è da questo punto di vista significativo: una volta riconosciuto che l'istituzione matrimoniale costituisce una naturalizzazione delle disuguaglianze che interessano donne e bambini nel mondo sviluppato e non, Giddens propone l'estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, come se per rendere migliore il contenitore fosse sufficiente cambiarne il contenuto. La questione di come sia possibile liberare le relazioni dal potere, dove la soluzione che vede i rapporti fondarsi sull'idea astratta di una relazione pura non pare incidere significativamente sulla questione delle disuguaglianze, resta dunque aperta; il femminismo contemporaneo ha infatti avuto la cura e il merito di mostrare come esse trovino spazio proprio nella definizione dei confini tra pubblico e privato, confini che l'analisi di Giddens pare confermare. Infine è in pari modo significativo notare che, nonostante il sociologo attribuisca grande importanza alla rivoluzione mediatica che trasforma le modalità di relazione nel mondo moderno, la sua analisi si limiti tuttavia all'influenza della televisione sulla società, la quale, se ha il pregio di diffondere informazione abbattendo i confini territoriali e politici, definisce una modalità comunicativa a senso unico e, a detta di Giddens stesso, banalizzante. Una maggiore attenzione alle possibilità offerte dalla comunicazione elettronica, che il sociologo non sembra prendere in considerazione, potrebbe essere utile ove si cerchino di definire relazioni paritarie fondate in primo luogo su una condivisione di conoscenze e in cui il sapere sia patrimonio di quella che il filosofo francese Pierre Lévy chiama, con una bella espressione, intelligenza collettiva.
Francesca Di Donato
Cibo e memoria
domenica 10 maggio 2009
giovedì 7 maggio 2009
L'Infinito di Giacomo Leopardi
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e rimirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura.
E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei.
Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
lunedì 4 maggio 2009
domenica 3 maggio 2009
Letture
Liberare la crescita. 300 decisioni per cambiare la Francia.
Presieduta da Jacques Attali e convocata su richiesta del presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy e del primo ministro Francois Fillon, la Commission pour la libération de la croissance française ha svolto un complesso lavoro di analisi per esaminare le condizioni atte alla liberazione della crescita francese.
Per sei mesi quarantatre personalità di diversa provenienza, cultura e sensibilità hanno incontrato centinaia di professionisti, sia della pubblica amministrazione sia delle imprese e attività private, vagliato i suggerimenti ricevuti via Internet ed esaminato le esperienze straniere.
La diagnosi è stata chiara: in un mondo caratterizzato da un forte dinamismo, la Francia accumula ritardo. La sua posizione mondiale è indebolita ed è seriamente in discussione la prosperità dei suoi cittadini, attuali e futuri. Un paese che fa fatica ad attivare una moderna economia della conoscenza e un sistema gravato dall’eccessivo debito pubblico, con un’istruzione che, all’estero, non è presa abbastanza sul serio. Se non fosse la Francia, come viene descritta nel Rapporto della Commissione, si tratterebbe certamente dell’Italia.
La Commissione ha prodotto un corpus di 316 suggerimenti coerenti, atti a stimolare la crescita senza aumentare la spesa pubblica. Si va dalle decisioni con conseguenze di lungo termine a quelle di brevissimo, secondo un ferreo rapporto di priorità, che parte dalla conoscenza, passa per la concorrenza e lo stimolo allo sviluppo dei settori innovativi e giunge alle infrastrutture. Il testo, scrive lo stesso Attali, “non è un inventario dal quale un governo potrebbe piluccare a piacimento, né tanto meno un concorso per idee originali, condannate a restare ignorate. È un insieme coerente, le cui singole parti sono articolate tra di loro, i cui singoli elementi costituiscono la chiave di successo del tutto”.
In considerazione delle analogie riscontrate con la Francia, la metodologia d’intervento appare risolutiva anche per l’Italia che si trova ad affrontare una sfida altrettanto decisiva. “Le coraggiose riforme strutturali delle quali c’è bisogno, in Italia come negli altri paesi dell’Europa continentale, per vincere le sfide della globalizzazione”, scrivono Bassanini e Monti – membri della Commissione Attali, “hanno bisogno non soltanto di governi dotati di forti poteri e di maggioranze parlamentari larghe e coese; ma ancor più di leadership determinate e autorevoli e di un ampio sostegno bipartisan”.
L’autore
Jacques Attali, nato in Algeria nel 1943, intellettuale, economista, filosofo, storico, ha insegnato Economia teorica all'École Polytechnique e all'università Paris-Dauphine. Dal 1981 al 1991 è stato consigliere economico di François Mitterrand, poi fondatore e presidente della Bers, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo dell'Europa dell'Est.Editorialista de "Express", è autore di decine di libri, tradotti in più di venti lingue, tra cui saggi, romanzi, racconti per l'infanzia, biografie e opere teatrali.
Crisi della scuola.
Sono entrato in ruolo, allora si diceva così, il primo ottobre 1976 e il Corriere apriva con un fondo di Natalia GINSBURG sulla scuola inadeguata e suonava così: pagate i maestri come i magistrati!
Oltre trent'anni dopo Pietro CITATI ha soffiato sulla medesima tromba (vedi sotto), ora stiamo iniziando una nuova Riforma - con aspetti sicuramente nuovi ed interessanti - ma sembra sempre attuale il passo di ERASMO da ROTTERDAM nell' Elogio della follia "Quelli che tra i mortali vestono l'abito dellasapienza e, come si ice, aspirano al famoso ramo d'oro... sempre affamati, se ne stanno nelle loro scuole, tra turbe di ragazzi invecchiando nella fatica" ...
LA POLEMICA
Gli insegnanti sono diventati una specie di sotto-proletariato
Raddoppiamo gli stipendi ai nostri professori
di PIETRO CITATI
Sono così vecchio, che i professori della mia giovinezza avevano studiato ai tempi della Riforma Gentile. Non vorrei sopravvalutarla. Né vorrei sopravvalutare l'insegnamento dei miei professori di ginnasio e di liceo: conoscevano male le letterature straniere, e avevano la pessima abitudine di discutere interminabilmente le opinioni di Benedetto Croce su Dante o Leopardi o Ariosto. Ma ce n'erano alcuni straordinari. In primo luogo, meravigliosa conoscenza del greco e del latino, tanto che Giorgio Pasquali sosteneva che i migliori filologi classici provenivano dalle cattedre dei licei. Poi alcuni avevano un modo d'insegnamento che, in parte, si è perduto. Oggi la letteratura è studiata soprattutto come storia della cultura. Allora, i professori più intelligenti parlavano di Dante o Petrarca o Ariosto o Leopardi come se fossero una parte essenziale della vita quotidiana di ogni ragazzo. Vivevamo in loro e per loro. Uno dei miei professori discorreva di Machiavelli e di Guicciardini con tale passione e divertimento, che noi ne discutevamo tornando a casa e poi ne parlavamo a pranzo con nostro padre e nostra madre, come se tutti i problemi della vita moderna fossero illuminati dal Principe e dai Ricordi.
Molti maestri, e soprattutto maestre, erano meravigliosi: molto più bravi di quelli ai quali De Amicis innalzò un monumento nel Cuore. Appena aprivano bocca, tutto diventava chiaro, limpido, luminoso: i numeri si addizionavano, moltiplicavano e dividevano per conto loro: i verbi irregolari non avevano più misteri; la storia diventava un romanzo d'avventure. Avevano un grande dono comunicativo: uno spirito materno maggiore, probabilmente, di quello che esprimevano a casa; e le violente o pacate tirate d'orecchie, e i rapidi colpi di bacchetta sulle mani, venivano accettati senza ribellione. Nei piccoli paesi, ogni maestra insegnava a due o tre classi, districandosi non si sa come in quel fantastico garbuglio. Ciascuna aveva un linguaggio e un timbro: tanto che si poteva ritrovare nelle voci dei bambini la voce delle insegnanti. E poi, la bellezza delle calligrafie (io scrivo orribilmente): tondi perfetti, linee slanciate, filettature, eleganze neogotiche. Credo che la perdita della bella calligrafia e dello studio delle poesie a memoria sia stata, come diceva Italo Calvino, una delle principali sconfitte dell'età moderna. Tutti sapevano che gli stipendi delle maestre e dei professori non erano alti. Ma, in generale, era una cosa dimenticata. Nemmeno i più altezzosi borghesi o aristocratici di Torino ricordavano che gli educatori dei loro figli erano pagati meno dei loro autisti, e che le professoresse non frequentavano le grandi sarte. Esisteva l'inconscia convinzione che i professori non appartenessero a nessuna classe sociale: ma ad uno strano regno, dove né danari né vestiti né vacanze costose avevano importanza. Sulla condizione dell'insegnamento nei licei, non posso che rinviare ad un libro preciso e piacevole di Paola Mastrocola, che possiede un'esperienza molto più diretta della mia. Ci furono periodi relativamente decorosi. Quello, per esempio, nel quale l'insegnamento nelle medie e nei licei fu assunto, quasi esclusivamente, dalle donne: lo stipendio era basso, ma integrava quello del marito; e poi rimaneva tutto il pomeriggio libero da dedicare ai figli. Ma questo interludio non fu lungo. Presto il Ministero elaborò una quantità mostruosa di materiale burocratico o semiburocratico e paraburocratico - riunioni, commissioni, moduli, discussioni, aggiornamenti, delirii - che distrussero i bei pomeriggi liberi, nei quali passeggiare o giocare con i figli. Per il resto, la storia della scuola elementare, delle medie e dei licei negli ultimi trent'anni è quella di un rapido disastro. Le cause furono innumerevoli: le conseguenze del voto politico negli anni dopo il 1968: la riforma della scuola elementare, che vide la dissennata suddivisione tra i maestri (come se un solo maestro non fosse capace di insegnare sia aritmetica sia italiano): l'immissione, per motivi politici, di moltissimi pessimi insegnanti: la conseguente mancanza di posti per i giovani laureati: la confusione del Ministero; la stolidità dei programmi e dei non programmi di studio. A un ragazzo di quindici anni bisogna far leggere Delitto e Castigo, che lo sconvolge e travolge, non la per lui incomprensibile Coscienza di Zeno. A questo si aggiunse l'influenza rovinosa di alcuni libri di testo, compilati da professori universitari di tendenza strutturaliste: i quali imposero ai ragazzi di imparare a memoria gli attanti e la diegesi di Gérard Genette, invece di invitarli a comprendere la bellezza e il significato della letteratura. Tutto questo ha portato alla degradazione della classe degli insegnanti. Cinquant'anni fa, era una non-classe, rispettata anche se non temuta. Oggi, gli stipendi miserabili hanno prodotto una sotto-classe, una specie di sottoproletariato, che possiede a malapena il danaro per vestirsi e nutrirsi, ma non per comprare un libro, sia pure in edicola. Ricordo con strazio la visione di una classe di professori, qualche anno fa: quei golfini spelacchiati, quei vestiti lisissimi. So di dire una cosa banalissima: oggi, quando la sorte della civiltà occidentale è affidata alla specializzazione, un buon liceo e una buona università sono assolutamente necessari. Invece, l'Italia ha perduto la precisione della sua vecchia cultura agricola, quando si sapeva potare un olivo e innestare una vigna. Quasi tutti lavorano in modo confuso ed approssimativo, come se la sorte del mondo non dipendesse dal dono di piantare un chiodo nel punto giusto. Non è più possibile continuare a pagare i professori delle medie e dei licei, che devono tornare ad essere un'élite, con gli stipendi di oggi. Gli stipendi vanno almeno raddoppiati, e via via aumentati nel corso del tempo. Gli economisti mi risponderanno che i soldi non ci sono: questa proposta porterebbe a una spaventosa catastrofe, a una disastrosa inflazione. Ma so ugualmente bene che, in Italia, quando bisogna sprecarli, i soldi ci sono sempre. Se risparmiassimo sulla rasatura delle guance dei senatori, i profumi e i dopobarba dei deputati, le tinture dei capelli ahimè biancastri delle senatrici, le bare degli assessori veneti, i cuochi e i camerieri del Parlamento, i gelati dell'onorevole Buttiglione, gli stipendi delle stenografe siciliane, i premi letterari (in gran parte finanziati dalle Regioni), la politica estera del presidente Formigoni, potremmo accumulare una ricchezza immensa. (3 luglio 2007)
Raddoppiamo gli stipendi ai nostri professori
di PIETRO CITATI
Sono così vecchio, che i professori della mia giovinezza avevano studiato ai tempi della Riforma Gentile. Non vorrei sopravvalutarla. Né vorrei sopravvalutare l'insegnamento dei miei professori di ginnasio e di liceo: conoscevano male le letterature straniere, e avevano la pessima abitudine di discutere interminabilmente le opinioni di Benedetto Croce su Dante o Leopardi o Ariosto. Ma ce n'erano alcuni straordinari. In primo luogo, meravigliosa conoscenza del greco e del latino, tanto che Giorgio Pasquali sosteneva che i migliori filologi classici provenivano dalle cattedre dei licei. Poi alcuni avevano un modo d'insegnamento che, in parte, si è perduto. Oggi la letteratura è studiata soprattutto come storia della cultura. Allora, i professori più intelligenti parlavano di Dante o Petrarca o Ariosto o Leopardi come se fossero una parte essenziale della vita quotidiana di ogni ragazzo. Vivevamo in loro e per loro. Uno dei miei professori discorreva di Machiavelli e di Guicciardini con tale passione e divertimento, che noi ne discutevamo tornando a casa e poi ne parlavamo a pranzo con nostro padre e nostra madre, come se tutti i problemi della vita moderna fossero illuminati dal Principe e dai Ricordi.
Molti maestri, e soprattutto maestre, erano meravigliosi: molto più bravi di quelli ai quali De Amicis innalzò un monumento nel Cuore. Appena aprivano bocca, tutto diventava chiaro, limpido, luminoso: i numeri si addizionavano, moltiplicavano e dividevano per conto loro: i verbi irregolari non avevano più misteri; la storia diventava un romanzo d'avventure. Avevano un grande dono comunicativo: uno spirito materno maggiore, probabilmente, di quello che esprimevano a casa; e le violente o pacate tirate d'orecchie, e i rapidi colpi di bacchetta sulle mani, venivano accettati senza ribellione. Nei piccoli paesi, ogni maestra insegnava a due o tre classi, districandosi non si sa come in quel fantastico garbuglio. Ciascuna aveva un linguaggio e un timbro: tanto che si poteva ritrovare nelle voci dei bambini la voce delle insegnanti. E poi, la bellezza delle calligrafie (io scrivo orribilmente): tondi perfetti, linee slanciate, filettature, eleganze neogotiche. Credo che la perdita della bella calligrafia e dello studio delle poesie a memoria sia stata, come diceva Italo Calvino, una delle principali sconfitte dell'età moderna. Tutti sapevano che gli stipendi delle maestre e dei professori non erano alti. Ma, in generale, era una cosa dimenticata. Nemmeno i più altezzosi borghesi o aristocratici di Torino ricordavano che gli educatori dei loro figli erano pagati meno dei loro autisti, e che le professoresse non frequentavano le grandi sarte. Esisteva l'inconscia convinzione che i professori non appartenessero a nessuna classe sociale: ma ad uno strano regno, dove né danari né vestiti né vacanze costose avevano importanza. Sulla condizione dell'insegnamento nei licei, non posso che rinviare ad un libro preciso e piacevole di Paola Mastrocola, che possiede un'esperienza molto più diretta della mia. Ci furono periodi relativamente decorosi. Quello, per esempio, nel quale l'insegnamento nelle medie e nei licei fu assunto, quasi esclusivamente, dalle donne: lo stipendio era basso, ma integrava quello del marito; e poi rimaneva tutto il pomeriggio libero da dedicare ai figli. Ma questo interludio non fu lungo. Presto il Ministero elaborò una quantità mostruosa di materiale burocratico o semiburocratico e paraburocratico - riunioni, commissioni, moduli, discussioni, aggiornamenti, delirii - che distrussero i bei pomeriggi liberi, nei quali passeggiare o giocare con i figli. Per il resto, la storia della scuola elementare, delle medie e dei licei negli ultimi trent'anni è quella di un rapido disastro. Le cause furono innumerevoli: le conseguenze del voto politico negli anni dopo il 1968: la riforma della scuola elementare, che vide la dissennata suddivisione tra i maestri (come se un solo maestro non fosse capace di insegnare sia aritmetica sia italiano): l'immissione, per motivi politici, di moltissimi pessimi insegnanti: la conseguente mancanza di posti per i giovani laureati: la confusione del Ministero; la stolidità dei programmi e dei non programmi di studio. A un ragazzo di quindici anni bisogna far leggere Delitto e Castigo, che lo sconvolge e travolge, non la per lui incomprensibile Coscienza di Zeno. A questo si aggiunse l'influenza rovinosa di alcuni libri di testo, compilati da professori universitari di tendenza strutturaliste: i quali imposero ai ragazzi di imparare a memoria gli attanti e la diegesi di Gérard Genette, invece di invitarli a comprendere la bellezza e il significato della letteratura. Tutto questo ha portato alla degradazione della classe degli insegnanti. Cinquant'anni fa, era una non-classe, rispettata anche se non temuta. Oggi, gli stipendi miserabili hanno prodotto una sotto-classe, una specie di sottoproletariato, che possiede a malapena il danaro per vestirsi e nutrirsi, ma non per comprare un libro, sia pure in edicola. Ricordo con strazio la visione di una classe di professori, qualche anno fa: quei golfini spelacchiati, quei vestiti lisissimi. So di dire una cosa banalissima: oggi, quando la sorte della civiltà occidentale è affidata alla specializzazione, un buon liceo e una buona università sono assolutamente necessari. Invece, l'Italia ha perduto la precisione della sua vecchia cultura agricola, quando si sapeva potare un olivo e innestare una vigna. Quasi tutti lavorano in modo confuso ed approssimativo, come se la sorte del mondo non dipendesse dal dono di piantare un chiodo nel punto giusto. Non è più possibile continuare a pagare i professori delle medie e dei licei, che devono tornare ad essere un'élite, con gli stipendi di oggi. Gli stipendi vanno almeno raddoppiati, e via via aumentati nel corso del tempo. Gli economisti mi risponderanno che i soldi non ci sono: questa proposta porterebbe a una spaventosa catastrofe, a una disastrosa inflazione. Ma so ugualmente bene che, in Italia, quando bisogna sprecarli, i soldi ci sono sempre. Se risparmiassimo sulla rasatura delle guance dei senatori, i profumi e i dopobarba dei deputati, le tinture dei capelli ahimè biancastri delle senatrici, le bare degli assessori veneti, i cuochi e i camerieri del Parlamento, i gelati dell'onorevole Buttiglione, gli stipendi delle stenografe siciliane, i premi letterari (in gran parte finanziati dalle Regioni), la politica estera del presidente Formigoni, potremmo accumulare una ricchezza immensa. (3 luglio 2007)
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Ritaglio
“Avvenire” Venerdì 6 luglio 2007, Anno XL, N. 158.
LA RICETTA DELLA CULTURA
di GIANFRANCO RAVASI
Della cultura non si dà ricetta: ma, poiché la cultura non è l'erudizione, cultura diviene solo quella che, entrando a far parte della conoscenza, accresce la coscienza.
È stato uno dei massimi critici e storici dell'arte, il senese Cesare Brandi (1906-1988). Ho qui tra le mani un suo saggio intitolato Carmine o della pittura e m'imbatto in una frase sulla cultura che ben merita di essere meditata non solo da li addetti ai lavori. Tutti, infatti, abbiamo bene o male imparato qualcosa, abbiamo fatto studi, letto, ascoltato. Tutti abbiamo incontrato eruditi altezzosi, incapaci di comunicare quello che sapevano, ma anche maestri appassionati. Essere colti, infatti, non è sinonimo di essere sapienti. Ecco, Brandi svela il segreto della vera cultura, possibile a tutti, anche se a livelli differenti.
Essa non è mero accumulo di dati, come purtroppo talora accade in certe scuole in cui si cerca di ingozzare le menti dei ragazzi, come si fa coi polli in batteria. E, invece, la mobilitazione della conoscenza che è simile a un campò fertile che attende non di essere coperto da teli ma di essere seminato. È un appello alla coscienza perché si attrezzi a giudicare, a scavare nei segreti dell'essere e della vita. Il fa.rrroso filosofo greco, vissuto a Roma, Epitteto nelle sue Dissertazioni affi?rrrraua che «solo l'uomo colto è libero». E’ per questo che le dittature tengono i sudditi nell'ignoranza. Non per nulla Hermann Goering, il terribile capo nazista, non esitava a dire: «Quando sento qualcuno parlare di cultura, la mano mi corre al revolver!». Anche se siamo in uno stato libero, molti sono i condizionamenti (televisione, pubblicità, moda) che vogliono costringerci a poche idee e alla superficialità, impedendoci di comprendere veramente e giudicare.
LA RICETTA DELLA CULTURA
di GIANFRANCO RAVASI
Della cultura non si dà ricetta: ma, poiché la cultura non è l'erudizione, cultura diviene solo quella che, entrando a far parte della conoscenza, accresce la coscienza.
È stato uno dei massimi critici e storici dell'arte, il senese Cesare Brandi (1906-1988). Ho qui tra le mani un suo saggio intitolato Carmine o della pittura e m'imbatto in una frase sulla cultura che ben merita di essere meditata non solo da li addetti ai lavori. Tutti, infatti, abbiamo bene o male imparato qualcosa, abbiamo fatto studi, letto, ascoltato. Tutti abbiamo incontrato eruditi altezzosi, incapaci di comunicare quello che sapevano, ma anche maestri appassionati. Essere colti, infatti, non è sinonimo di essere sapienti. Ecco, Brandi svela il segreto della vera cultura, possibile a tutti, anche se a livelli differenti.
Essa non è mero accumulo di dati, come purtroppo talora accade in certe scuole in cui si cerca di ingozzare le menti dei ragazzi, come si fa coi polli in batteria. E, invece, la mobilitazione della conoscenza che è simile a un campò fertile che attende non di essere coperto da teli ma di essere seminato. È un appello alla coscienza perché si attrezzi a giudicare, a scavare nei segreti dell'essere e della vita. Il fa.rrroso filosofo greco, vissuto a Roma, Epitteto nelle sue Dissertazioni affi?rrrraua che «solo l'uomo colto è libero». E’ per questo che le dittature tengono i sudditi nell'ignoranza. Non per nulla Hermann Goering, il terribile capo nazista, non esitava a dire: «Quando sento qualcuno parlare di cultura, la mano mi corre al revolver!». Anche se siamo in uno stato libero, molti sono i condizionamenti (televisione, pubblicità, moda) che vogliono costringerci a poche idee e alla superficialità, impedendoci di comprendere veramente e giudicare.
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