A margine del nuovo romanzo di José Saramago, Il viaggio dell'elefante, Torino, Einaudi, 2009.
Ritaglio e cito:
Bressanonedi Karl Mittermaier.
Tra vicoli e strade
Il nostro viaggiatore, che intende scrivere un servizio giornalistico su Bressanone in una affermata rivista del suo Paese, il giorno dopo - è il quarto della sua permanenza in città - si dirige attraverso la via Fienili in direzione di un antico hotel che reca come insegna un elefante e sulla facciata esterna presenta la raffigurazione di un massiccio pachiderma.
Si stupisce non poco e si chiede: Che c'entra Bressanone con un elefante? Come mai proprio il dipinto di un animele profano che non ha nulla in comune con vescovi e preti, con incenso e chiese monumentali? Un tempo, nel 16° secolo, la presentazione di particolari rarità, quali giganti, nani, animali esotici - pappagalli e tigri, leoni pantere ed elefanti - costituiva un evento straordinario che rimaneva scolpito nella memoria per una vita intera. Correva l'anno 1551/52 quando a Bressanone giunse un elefante indiano che suscitò stupore ed entusiasmo tra la popolazione della città e dei dintorni. La gente presa da grande curiosità venne anche da lontano, affondando i piedi nella neve alta e sopportando freddo e privazioni, pur di vedere da vicino l'elefante, anche per pochi minuti soltanto.
Nel 1548 l'arciduca Massimiliano d'Austria, il futuro imperatore Massimiliano II, si era sposato con la propria cugina spagnola di nome Maria, figlia di Carlo V. Era uno di quei molti matrimoni d'interesse che sapeva ben poco d'amore e molto di calcoli politico-dinastici: gli Asburgo governavano a Vienna ma anche a Madrid. Una parentela austro-spagnola doveva arricchire e consolidare con ulteriore anello il già vasto predominio della Casa d'Austria.
Come dono nunziale Massimiliano desiderava tanto un elefante indiano; e il reggente portoghese soddisfece con sollecitudine questo stravagante sogno infantile. Nella lettera d'accompagnamento ritenne opportuno dare un nome al pachiderma, e precisamente quello del nemico mortale dell'occidente cristiano, ossia quello del sultano Solimano, affinchè questi ne risultasse umiliato come s'addice ad uno schiavo.
In piena estate dell'anno 1551 un fastoso corteo nunziale prese le mosse da Madrid per recarsi a Vienna. Accanto a Massimiliano, alla novella sposa Maria, a molti soldati ed inservienti, nel porto di Genova si aggiunse il pachiderma Solimano con due lancieri, dodici uomini incaricati di accudire l'animale e un garzone addetto alla sua guida. Ovunque Massimiliano faceva tappa Solimano suscitava enorme interesse. A Trento, per esempio, uno scultore era lì ad attendere il momento opportuno per esternare l'elefante in una monumentale statua di legno. Siccome nella città del Concilio Massimiliano aveva da risolvere alcune questioni politiche, fece proseguire la propria sposa con l'intero corteo fino a Bressanone, dove giunse nel mese di dicembre e prese alloggio in una taverna sita nei campi a nord della città, dove rimase due settimane; tanto occorreva per ritemprarsi dagli strapazzi del lungo viaggio. Sin dal primo giorno l'elefante Solimano si trovò al centro dell'attenzione di curiosi dagli occhi stralunati. La calca fu tanta e tale che per quanti non ebbero la possibilità di ammirare Solimano in carne ed ossa, sulla facciata esterna della casa si raffigurò il pachiderma a grandezza naturale. L'affresco che lo ritrae è del pittore Leonhard Mair, testimone oculare di questa straordinaria presenza in città.
Da allora la casa che ospitò il corteo nunziale e Solimano reca il nome di Hotel Elefante. E tuttora - anche all'interno dell'albergo - sono conservati molti ricordi di quella visita eccezionale. Al povero elefante giunto dall'India, nonostante la grande agitazione che le circondava e le cure che gli dedicava una piccola compagnia di accompagnatori, le cose non andarono troppo bene. Durante il viaggio tutta l'attenzione della gente era soltanto per lui. E così fu per un certo tempo una volta arrivato a Vienna. Poi l'assuefazione a quella vista quotidiana diradò la presenza dei curiosi, e ancor prima del Natale 1553 il robusto pachiderma si spense miseramente nella sua stalla dilaniato dai morsi della fame. Ciò che rimane dell'elefante di corte è un meraviglioso sgabello a tre piedi che l'allora borgomastro di Vienna si fece confezionare con l'omero e parti della gamba destra anteriore. Poi l'oggetto in questione sparì da Vienna. Si sa che nel 1869 il monastero di Krems (Austria inferiore) lo acquistò presso un antiquario in odore di fallimento e lo sistemò in un'esposizione permanente di cose rare anche se di dubbio valore artistico. Grazie però alle sue nobili origini gli si può attribuire un qualche significato storico-culturale. Una curiosità comunque che fa sgranare tanto d'occhi: la superficie ossea dei piedi è onata di originali e delicate incisioni raffiguranti gli stemmi di Massimilano e della consorte Maria, nonché la sagoma massiccia del celebre elefante. Il ripiano del sedile reca incisa, fra decorazioni ornamentali, una pomposa scritta latina che narra la storia del misterioso oggetto, precisando che l'animale morto pesava 142 libbre, di cui 73 si riferiscono allo scheletro.
All'Elefante di Bressanone - suppone giustamente il nostro turista - deve aver preso alloggio anche il pensatore e poeta tedesco Heinrich Heine durante il suo viaggio da Monaco a Genova. In quei giorni però il creatore dell'indimenticabile "Libro dei canti" non era in buona luna. Nemmeno a Bressanone. Il cattivo tempo gli aveva tolto il buon umore, inoltre non riusciva a simpatizzare con la posizione sempliciotta e reazionaria dei tirolesi sullo sfondo delle conquiste fatte grazie alla rivoluzione francese. A Bressanone s'accorge soltanto del fatto che la gente si affretta ad andare in chiesa e che l'aria della città è impregnata di miasmi religiosi; e annota "Ovunque una puzza asfissiante di immagini sacre e di fieno secco". Heine sostò a Bressanone in piena estate nel periodo della fienagione e poco dopo. L'aroma straordinariamente forte del fieno lo percepisce come puzza. E' palese l'associazione che il poeta si sia diretto verso il centro cittadino percorrendo la via dei Fienili che dall'Elefante conduceva attraverso il quartiere in cui fino a pochi decenni fa il piano superiore dei caseggiati rurali era adibito a fienile.
Proseguendo nella sua passeggiata sulle possibili orme di Heine il nostro turista giunge in via Bastioni Maggiori, che nel secolo scorso fungeva da piazza del mercato. Nel 13° secolo i mercati erano stati trasferiti da via Mercato Vecchio nella Piazza del Duomo, dove rimasero fino al 1820. Poi ritrovarono posto in via Mercato Vecchio e vi rimasero fino al 1867, quando appunto si spostarono in via Bastioni Maggiori. In origine le vie Bastioni Maggiori e Minori formavano un fossato colmo d'acqua all'esterno delle mura urbane. Ma già nel 16° secolo il fossato venne colmato con materiale di riporto, lasciando scoperto soltanto un breve tratto di roggia.
La via Mercato Vecchio, se si prescinde da quelle dei Portici, è la vera e propria strada dell'economia brissinese: da secoli essa ospita negozi, botteghe di artigiani ed esercizi pubblici. E, come già detto, qui fu ufficialmente concesso di dare vita al primo consistente esercizio commerciale; volutamente al di fuori delle mura urbane e un po' ai margini delle attività religiose.
Ulrich Fuchs scende lungo la breve via Torre Bianca, valica Porta San Michele, si ritrova in Piazza Parrocchia, gironzola per via Portici Maggiori fino a Porta Sabiona ed eccolo di nuovo in via Bastioni Maggiori. Il nome di questa porta deriva dai Signori di Sabiona che dal 12° secolo avevano il compito di difendere quest'angolo nordoccidentale delle mura urbane. Agli inizi del 17° secolo l'antico castello cittadino entrò in possesso della famiglia Lachmuller da cui pochi anni fa l'acquistò la Comunità di valle che lo restaurò egregiamente. Un tratto di questo grande edificio risale alla più antica struttura urbana fatta erigere dal vescovo Heriward poco dopo il Mille. Come già segnalato, l'occasione fu il trasferimento della sede vescovile da Sabiona a Bressanone, la cui data esatta è tuttora oggetto di discussione. Lo storico della chiesa Josef Gelmi scrive in merito: "Qualunque possa essere stata la nascita di Bressanone, una cosa è certa: lo sviluppo della località iniziò nel 901, quando il re Ludovico il Fanciullo donò al vescovo Zaccaria di Sabiona il maso Prihsna. Benchè nel documento di donazione tuttora conservato non siano indicati i confini precisi della tenuta agricola, si può supporre che si sia trattato di un territorio molto vasto che abbracciava l'intera conca valliva di Bressanone. I vescovi di Sabiona si accorsero ben presto che la piana di Bressanone era preferibile alla roccaforte pressochè inaccessibile di Sabiona. Per questo vi fecero erigere il complesso ambito del Duomo e nel corso della seconda metà del 10° secolo trasferirono la loro sede a Bressanone".
Come si deduce dal catalogo dei vescovi, Heriward fece costruire una cerchia muraria che il suo successore Hartwig - l'immediato predecessore del già menzionato Poppone, alias Damaso II - provvide a completare.
Dei vescovi brissinesi ci sarebbe molto da raccontare: grandi imprese e virtù eminenti, erudizione raffinata e gioiose amenità; ma anche interferenze meno lodevoli nella vita cittadina e qualità abbastanza discutibili. Vogliamo soffermarci brevemente su due di loro: Altwin (1049-1097), l'immediato successore di Poppone, è annoverato fra quei pastori della chiesa locale che misero in cattiva luce la propria missione e dignità. Anche il periodo in cui Altwin visse è caratterizzato dalle violente lotte per le investiture. Pure lui, come Poppone, era un fedele alleato dell'autorità temporale, dell'imperatore Enrico IV che lo ricompensò con laute prebende. Altwin, come riferisce il vecchio catalogo brissinese, avrebbe comperato la dignità episcopale per 100 marchi. Un gesto del genere, sullo sfondo di grande corruzione e di enormi interessi particolari, oggi appare particolarmente riprovevole; nell'alto medioevo, soprattutto nel corso della aggrovigliata lotta per le investiture, la simonia faceva parte di una prassi consolidata quando c'era di mezzo il conferimento di piccoli e grandi incarichi. Fu Enrico IV, che nel 1080 era stato scomunicato per la seconda volta, a convocare in Bressanone un sinodo contro il papa Gregorio VII. La scelta della località sottolinea nuovamente da un lato l'importanza di Bressanone dall'altro la sua felice posizione geografica lungo la strada degli imperatori. Il conciliabolo durò due giorni: il 25 e il 26 giugno 1080. Si ha l'impressione che l'imperatore e i suoi fedeli sudditi avessero fretta; diedero al sinodo il nome di "Concilio Generale"; emanarono un decreto nel quale si accusava il papa di omicidio e di eresia e si esigeva senza mezzi termini la sua deposizione. La conclusione del documento recita: "Per questo, ispirati da Dio, ci siamo radunati nella ferma fiducia negli inviati e nelle lettere dei 19 vescovi, che nel giorno santo della Pentecoste scorsa erano convenuti a Magonza contro Ildebrando (Gregorio VII), che predica sacrilegio e incendio, difende spergiuro e omicidio, mette in dubbio la fede cattolica ed apostolica nel corpo e nel sangue del Signore… Noi quindi emettiamo la sentenza che sia deposto secondo le disposizioni del diritto canonico, venga cacciato e, se non scende dal suo trono dopo questa denuncia, sia dannato in eterno".
A Bressanone poi subito si elesse papa l'arcivescovo Viberto di Ravenna.
Negli anni successivi - la politica imperiale non riuscì ad imporsi definitivamente nei confronti del predominio della chiesa - il vescovo Altwin dovette pagare il fio della propria fedeltà all'imperatore: il duca bavarese Guelfo, ostile ad Enrico IV, lo fece imprigionare nella cappella di San Giovanni e più tardi lo cacciò dalla città. Morì scismatico. Come annota il Gelmi, sotto il vescovo Altwin la diocesi di Bressanone subì dei danni dal punto di vista religioso, ma da quello temporale si arricchì di molto grazie alla sua fedeltà all'imperatore.
Il secondo vescovo che vogliamo brevemente ricordare è il beato Artmanno (1140-1164), uno dei maggiori vescovi che la diocesi possa annoverare. Assieme al duca Reginberto di Sabiona nell'anno 1142 Artmanno fondò l'abbazia dei monaci agostiniani a Novacella, un monastero di grande prestigio storico religioso e culturale, sito alla periferia settentrionale di Bressanone; ogni persona interessata a questa terra dovrebbe dedicargli una attenta visita.
Anche Artmanno, coma altri molti suoi predecessori, intratteneva stretti ed amichevoli rapporti con i detentori del potere temporale, ma per quanto concerne la sua missione spirituale era un uomo di chiesa, un autentico rappresentante del cristianesimo, un vescovo esemplare che per tutta la sua vita non dimenticò mai di essere un uomo di Dio impegnato per la salvezza delle anime.
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