Sandor Marai, Liberazione, Adelphi.
Dicembre 1944. L’armata rossa, che già dall’inizio di novembre è arrivata alla periferia di Budapest, sta per completare l’accerchiamento della città. L’antivigilia di Natale una ragazza di venticinque anni, Erzsébet, che già da mesi vive braccata, sotto falsa identità, riesce a trovare un estremo nascondiglio per il padre: il vecchio, un celebre scienziato a cui gli squadroni fascisti delle croci frecciate danno la caccia, verrà murato, insieme ad altre cinque persone, in una cantina grande quanto una dispensa. Erzsébet, invece, scenderà nello scantinato del palazzo dove vive, insieme a tutti gli abitanti di quello e di altri palazzi dei dintorni. Ci rimarranno per quattro settimane, quanto durerà il terribile assedio, mentre sopra le loro teste infuriano i combattimenti. In quel mondo sotterraneo maleodorante e caotico, in una «promiscuità da porcile», mentre fra la gente ammassata sui materassi si scatenano tensioni sempre più acute, Erzsébet aspetta «qualcosa» – qualcosa che si riassume in una parola: liberazione. Tra poco i russi saranno qui, pensa, e tutto cambierà. Finalmente, nella notte fra il 18 e il 19 gennaio, vedrà la sagoma del primo russo stagliarsi sotto la porta: ma quell’incontro sarà ben diverso da come se l’era immaginato. Con Liberazione, Márai ci ha lasciato una testimonianza bruciante dell’orrore che un’intera città, la sua, aveva vissuto in quei mesi, assediata dai sovietici, bombardata dagli Alleati e sottoposta ai rabbiosi rastrellamenti degli sconfitti. Né, quando scriveva le ultime righe del libro nel settembre del 1945, si faceva più illusioni sul regime che l’armata rossa era venuta a instaurare nel suo Paese.
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